3 novembre 1918. Firma dell’armistizio fra Italia e Austria Ungheria. Deo Gratias.

a cura di don Giuseppe

L'annotazione del curato di Abbazia don Giovanni Battista Torresan, in calce all’atto di morte del piccolo Davide Conte (fratello di padre Vito), nella sua brevità ci comunica i sentimenti che vissero i nostri antenati durante quei tremendi anni che passarono fra speranza e sconforto, fra dolore e compassione.

A leggere le testimonianze di soldati, ufficiali, cappellani e crocerossine al fronte è difficile non ritrovarsi con gli occhi lucidi e un sentimento di commozione che sale e ti sconvolge nel profondo. Spesso sono lettere indirizzate alle persone care nelle quali traspare timore e fierezza, responsabilità e senso civico. È facile giudicare dopo cento anni quei giorni. Il senno di poi di manzoniana memoria non è un buon criterio per valutare la coscienza di questi uomini e donne perché sono uomini e donne catapultati in qualcosa di immensamente più grande di loro (e di noi), nel quale si sono ritrovati a vivere e a spendere le loro energie migliori. Per tanti di loro la guerra finì in uno dei sacrari militari che ancora oggi testimoniano quei tristi anni. Per tanti altri la guerra finì molti anni dopo, al termine di una vita di fatica per respingere i fantasmi di quei giorni o per sopravvivere con un corpo debilitato o deturpato dai gas, dalle granate, dal gelo, dalla fame o dagli eccessi che – sembra una contraddizione – si imposero in una vita di privazione come quella della trincea.

Per chi rimase a casa, portare avanti la vita di tutti i giorni udendo in lontananza i cannoni delle grandi battaglie che si stavano consumando sul Grappa e su tutta la Pedemontana non era certamente facile. Qualcuno all’udire il rimbombo che arrivava fin in pianura, con il pensiero, sarà andato a quel figlio, fratello, sposo, padre, nipote, amico che in prima linea affrontava “il nemico”.

Ma fu l’immediato dopoguerra il periodo certamente più faticoso anche per l’Italia “vittoriosa”: scempi, vendette, furti, violenze e altri atti deprecabili rivelarono che la guerra oltre alle vite umane di tanti giovani, ai campi, alle case, alle chiese e campanili, ai paesi, agli animali, si era portata via anche il cuore e l’anima delle persone che, prive di tutto, si sono ritrovate con una povertà interiore impressionante. Una testimonianza su tutte, quella di monsignor Enrico Di Ceva, professore di lettere nel Seminario di Ceneda, ci da l’idea del clima di quel tempo in cui ci fu un “…continuo saccheggio della città da parte dei cittadini; scene indescrivibili, incredibili”. Purtroppo è solo una delle tante testimonianze sul degrado morale che la Guerra portò in dote nelle nostre terre. Continua, infatti, don Ceva: “Alle 3.30 dalla mia finestra ho assisto ad un turpe spettacolo di viltà suprema degli Arditi della cuffia e bandiera nera, chiamati «Compagnia della morte» che schiaffeggiano, percuotono col calcio del fucile, sputacchiano, minacciano con un lungo stilo una colonna di prigionieri austriaci. I poveri prigionieri non reagiscono per nulla. Infamia che macchia la bellezza della vittoria ed io dovetti fremere e piangere”.

Oggi il revisionismo storico non ha ancora definitivamente tolto quell’alone di gloria e potenza che fu usato, in seguito, per fini di propaganda tutt’altro che pacifisti.

Resta comunque sempre aperta una domanda, chissà se troverà mai una risposta sincera e plausibile: come saremmo oggi se l’Italia quella guerra l’avesse persa? Non è una domanda di secondaria importanza, a mio avviso. Fatto sta che siamo anche quello che ne è scaturito da quella “inutile strage”, come la definì con lucidità papa Benedetto XV nella sua lettera inviata ai capi dei popoli belligeranti il 1° agosto 1917.

Dalla storia dobbiamo trarre sempre un insegnamento. Sia essa luminosa o tenebrosa. Non fu così, come la storia stessa ci ricorda, vent’anni dopo. Si ricominciò con un’inaudita violenza e cattiveria. Se la propaganda della Prima Guerra poteva ancora essere giustificata in qualche modo, nella Seconda questo non poteva certo avvenire. È chiaro che furono i civili le vittime più coinvolte. Non si difendeva più la propria patria. Si negava all’altro il diritto all’esistenza. Una simile strategia di guerra purtroppo è ancora sotto gli occhi di tutti: Yugoslavia… Siria… Iraq… solo per fare qualche esempio riportano alla nostra attenzione il dolore innocente.

A cento anni dalla fine delle Prima Guerra, il modo migliore per onorare i morti di tutte le guerre – vicine e lontane – è non lasciarci scappare la pace! È un dono prezioso e delicato di cui dobbiamo aver cura a partire dalle nostre famiglie, dai nostri gruppi e associazioni, dal nostro vicinato, dai nostri paesi. Scegliere sempre ciò che unisce e non ciò che divide.

Lo so. Può sembrare il fervorino di un parroco ispirato da una vena romantica, nell’imminenza di un anniversario così importante. E invece è il succo di tutto il cristianesimo. È quel cristianesimo pratico che ci permette di considerare gli altri amici e come dice il Signore: “Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici”.

Onorare i caduti di quella guerra si può. Ai monumenti presenti praticamente in ogni paese costruiamone altri in ogni casa, in ogni famiglia. Non in pietra o marmo ma in opere buone, in unità, compassione, solidarietà. È una sfida in un tempo come il nostro attraversato nuovamente da venti di malcontento e disagio. È importante non rispondere con le stesse armi che furono (e sono) il lasciapassare  di ogni guerra. La strada della chiusura in se stessi per paura non porta da nessuna parte.

E non si tratta di considerare evangelicamente solo i grandi fenomeni di massa che sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta di aspirare e di impegnarsi in una vita davvero generosa, aperta agli altri dove la preoccupazione del bene comune sia fattivo impegno, dono e (perché no?) sacrificio.

Affidiamo alla misericordia del Padre i morti di tutti le guerre. Speriamo nel raggiungimento della pace del paradiso per tutti loro. Speriamo nel raggiungimento della pace qui in terra per i popoli in guerra ancor oggi. Speriamo nel raggiungimento della pace del cuore per noi tutti che, pur godendo della pace nelle nostre terre, ci ritroviamo inquieti e bisognosi di prenderci cura gli uni gli altri per (ri)trovare e trasmettere la gioia del vivere e del vivere assieme.

Speriamo e preghiamo.

Torna indietro